... Ed uscimmo a riveder le stelle

 
          di Pier Giuseppe Milanesi

 

 
Vi sono frasi, espressioni, che hanno la potenza di risvegliare in noi sopiti pensieri e di radicarsi nella memoria trasformandosi in punti di riferimento ideali. E così ce li portiamo sempre dietro anche se gli interessi nella ricerca del sapere sono nel frattempo mutati.
 
Ma la realtà della lingua non si estende solo a tutti i campi di espressione spirituale dell’uomo – a cui in un senso o nell’altro, appartiene sempre una lingua – ma a tutto senza eccezione. Non vi è evento o cosa della natura animata o inanimata che non partecipi in qualche modo alla lingua, poiché è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale.

E’ una citazione tratta dall’Angelus Novus di Walter Benjamin, in particolare dal saggio, in esso contenuto, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini. E’ essenziale ad ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale! Ma quale lingua parla la natura? La nostra lingua? Siamo certi che la lingua degli uomini sia armonizzata con le giuste tonalità semantiche in grado di tradurre la “lingua delle cose”? In genere la corretta interpretazione ed esposizione delle regole che governano la natura è compito principale della scienza. Diciamo “principale” perché la conoscenza umana si avvale di altri strumenti altrettanto potenti, quali l’arte e la poesia. Ma il difetto della conoscenza poetica è che essa trasferisce sulla natura sentimenti, desideri e parole umane, al punto che il poeta personifica il vento, il mare, le montagne, il cielo ed ogni altra forza che anima le cose. La scienza dice che queste voci troppo umane non possono essere considerate “voci della natura” – o meglio, sono solo voci della natura umana. Già secondo Platone, ancor prima di Galileo, noi potremmo comunicare con la natura solo attraverso l’alfabeto geometrico e dei quanta matematici. Eppure anche lo spirito che chiamiamo con orgoglio “scientifico”, lentamente, subdolamente, anche in ragione della sua attuale enorme espansione e ridondanza, non è immune da latenti condizionamenti ideologici che contribuiscono a conservare alla natura questa sua funzione di rispecchiamento del teatro umano, dei desideri e delle aspettative dell’uomo.
Già in partenza, quando una pratica si istituzionalizza in accademie, gerarchie ecc. e si adorna con rituali, premi, concorsi, investiture, alimentandosi di rivalità, ambizioni, contese ecc. si predispone di per sé a funzionare come cintura di trasmissione di istanze e motivazioni estranee al sapere stesso. Le ideologie si perpetuano nei gesti, nelle procedure, nei rituali di trasmissione, nelle investiture ecc. prima ancora che nei pensieri. Poiché questi aspetti si amplificano con la moltiplicazione dei luoghi di produzione del sapere, non possiamo parlare di “scienza”, quanto di “sociologia della scienza”. La storia, in ogni caso, dimostra che nel momento in cui un universo di discorso si consolida in organismi di trasmissione e produzione istituzionali diventa infine impossibile distinguere tra aspettative teoriche e aspettative istituzionali: le idee si moltiplicano insieme agli apparati e la moltiplicazione degli apparati contribuisce a moltiplicare le idee per cui infine non è possibile capire se a proliferare sia la scienza oppure l’apparato che la gestisce. La domanda, in parole povere, resta quella che si poneva il teologo David Strauss, ossia se fosse stato Gesù ad inventare la chiesa o se fosse stata la chiesa ad inventare Gesù. Ma anche in questo caso, come nella questione metafisica se venga prima la forma o la sostanza, a questa domanda non sarà mai possibile dare risposta.

II - Se fissiamo il pavimento di casa, maculato e butterato di minuscole chiazze variamente colorate, a volte ci sembrerà scorgere volti di persone conosciute o sconosciute. In ogni confuso anfratto del mondo, si nasconde il volto dell’altro. Anche le ombre dei cespugli nella notte ci sembrano persone o animali in agguato. Ogni volta che ci rapportiamo ad un groviglio indistinto di elementi, cerchiamo di utilizzare punti, linee, macchie ecc. per disegnare qualcosa di “umano” o comunque siamo portati ad interpretare fenomeni caotici, complessi come un grande puzzle per rappresentare scenari che descrivono proiezioni di aspettative “umane”. Con questo spirito gli uomini scrutarono la volta celeste che fu forse il primo sillabario della intelligenza. Di fronte ad una massa caotica e luccicante di stelle, l’uomo si accinse ad ordinare quel caos proiettando su di esso narrazioni di vicende umane. Tramontato il primitivo e pacifico regno del Dio Padre Urano – il Regno dei Cieli! - anche le successive e più complesse cosmogonie diventarono ritratti di strutture di potere (religioso o militare) o allegorie di lotte tra dinastie. Questa consonanza tra mondo umano e mondo uranico, tra aspettative umane e costruzioni ideali è però una costante storica.
Ne è prova anche il fatto che ogni significativa rivoluzione di cultura nel pensiero, nella scienza e nell’arte si coniuga sempre con profondi rinnovamenti nelle società e del loro assetto politico. Un esempio, ancora recente, può essere ritrovato nell’età dell’illuminismo, quando la scienza cercò di definire il concetto di “organico”. Il modello che fu utilizzato per spiegare la complessa funzionalità implicita nell’organismo vivente, fu elaborato proprio nella sfera della teoria dei sistemi politici: nel contratto sociale di Rousseau. Il concetto dell’organismo – come possiamo ad esempio desumere dagli studi sulla Naturphilosophie di Goethe – viene inteso come una particolare e più complessa relazione dell’intero con le sue parti non dissimile dalla complessa dialettica intercorrente tra la massa degli individui e lo stato, descritta da Rousseau – sancita dalla prevalenza della volontà generale (l’Uno organico, la sintesi del vivente) sulla volontà di tutti (l’organismo composto da parti). Ebbene! Se parliamo di costanti storiche, non possiamo certo illuderci di esserne diventati immuni, oggi!
Diventa perciò legittimo interrogarci sul ruolo che le istanze ideologiche esercitano nella scienza contemporanea, nella organizzazione e gestione della ricerca, nella definizione degli indirizzi, dei metodi e nella costruzione dei modelli epistemologici. Se l’uomo, da sempre proietta sulla natura problemi, aspettative e desideri “umani”, dobbiamo ipotizzare che anche il vasto concerto del sapere contemporaneo proietti sull’essenza del mondo un immaginario socio-politico nascosto. Ovviamente la domanda che bussa alla nostra porta è questa: quale immaginario “umano” sta proiettando in background il nostro sapere?

III - Questa struttura nascosta, inconscia, ottiene maggior trasparenza – e può pertanto essere mostrata in controluce – quando il discorso scientifico intraprende percorsi di frontiera che lo costringono a mettere in campo tutte le sue risorse disponibili! Con fondate ragioni possiamo ritenere che la frontiera più avanzata della ricerca scientifica sia oggi rappresentata dallo studio della complessità del cervello: questo primato può essere confermato anche dal fatto che le neuroscienze funzionano da centro di attrazione per una molteplicità di discipline (naturali ed umanistiche) La complessità del cervello – e del cervello umano – è forse paragonabile, almeno nella nostra immaginazione, a quella dell’universo: un universo di stelle! E così, paradossalmente l’osservatore contemporaneo si trova quasi sospinto indietro nel vortice del tempo e posto nella stessa condizione in cui l’antico si predisponeva, nel buio della notte, a scrutare il cielo, unendo insieme una miriade di punti luminosi per disegnare i contorni di Ercole, di un toro, di un ariete, di Orione ecc. ossia per ritrovare in quel grande caos celeste le tracce nascoste, se non la stessa causa, delle vicende umane. Ed eccoci dunque, ancora fissi davanti ai cieli descritti dalle neuroimmagini, mentre cerchiamo di narrare, unendo puntini di neuroni illuminati, vicende umane: le nostre passioni, le nostre sensazioni, le nostre decisioni, i nostri pensieri.
Il cervello diventa pertanto lo scenario, il teatro, in cui tentiamo di rappresentare noi stessi. Ma sarà tutto vero? Ecco la domanda! Oppure stiamo immaginando un cervello “a nostra immagine e somiglianza”. E non solo rappresentiamo in esso le nostre emozioni ecc. ma trasferiamo anche le nostre aspettative teoretiche, ideali, ed insieme a queste riversiamo su questa aggrovigliata struttura molti elementi di provenienza ideologica che si infilano silenziosamente nella pratica della ricerca e che penetrano inosservati, anche grazie al veicolo più semplice di trasporto delle ideologie, e cioè le parole! Eccole, le parole che sfilano come tanti soldatini, con gli “input” e gli “output” che si sprecano! Parole umane. Che c’è di più umano delle parole? L’uomo è zoon logon echon, così definito da Aristotele: un animale che ha ricevuto il dono del linguaggio!
Cosa comporta “possedere” il linguaggio? Fino a che punto il “linguaggio umano”, il dare un nome alle cose, può essere considerato un privilegio e non piuttosto una gabbia o un imbroglio, una pittura che si rovescia su di loro sostituendo rapporti “naturali” di senso con rapporti di senso tra parole – un senso “logico” che, come è noto, non si forma per comunicare con la natura, ma per far sì che gli uomini comunichino tra di loro? E dunque ecco la domanda che sempre ritorna! Quale lingua parla la natura? Nel caso specifico: che cosa “si dicono” veramente i neuroni quando comunicano tra di loro? Quanti segnali non cogliamo affatto, e come possiamo esser certi di interpretare correttamente quei segnali, quelle scariche e bagliori, che riusciamo a registrare? Se la lingua è uno spirito messaggero, e se la natura parla una propria lingua, come riuscire a cogliere il contenuto “spirituale” che sta dentro ad una sinapsi?” Che cosa sono “veramente” ciò che noi chiamiamo con le parole “calcio”, “potassio” o “proteina”? La natura, la cellula, il neurone ecc. non chiamano certamente questi e gli altri molteplici elementi con questi nomi! Ogni elemento della natura, nel momento in cui reagisce a suo modo all’afflusso di diversi segnali, conferisce ad essi un significato differente rispetto a quello che noi intendiamo con i nostri nomi e le nostre formule. Il neurone “vede” qualcosa che noi non vediamo e distingue ogni elemento leggendo in esso, nel suo interno, dei codici che restano per noi in gran parte segreti e che appartengono alla grammatica stessa dell’essere.

IV – La parola d’ordine con cui Edmund Husserl caratterizzò il suo metodo di ricerca fu “ … verso le cose stesse!” Diamo voce alle cose! Affinché ciò sia possibile, silenziamo dentro di noi ogni giudizio precostituito, evocando in tal modo quel clima di originario stupore che consente al mondo di offrirsi nella sua innocenza! Ed è appunto in forza di questo “darsi autentico” che Heidegger, che fu discepolo e continuatore dell’opera di Husserl, colse l’opportunità di reimpostare da capo, dopo Aristotele, il discorso universale sull’essere. Non si giunse a capo di nulla, anche perché il silenzio che noi ci imponiamo per ascoltare le voci delle cose, la voce dell’essere, lo imponiamo infine anche alle cose stesse che tornano ad essere mute.
Il nostro silenzio è sempre il silenzio del mondo. Ed allora, perché a fronte dello smacco dei progetti filosofici sull’essere perché non accettare questo nostro destino di esiliati da una verità terminale che non sarà mai nostra? La natura ha spinto l’uomo al sapere non è certo affinché egli si faccia carico dei segreti dell’universo, ma perché, attraverso il sapere, egli porti a compimento se stesso “in virtute e conoscenza” perfezionando le sue doti di zoon logon echon nella realizzazione della sua essenza di zoon politikon. Ed per questo che esiste un diretto e privilegiato rapporto tra “perfezione umana” e perfezione del sapere, o meglio, come aveva compreso Platone, è la teoria della politica che contiene le più remote risorse da cui attingiamo i modelli universali del nostro sapere che applichiamo in ultima istanza anche alla natura.
Inconsapevolmente, come abbiamo detto, lo stiamo facendo anche ora, così come lo facciamo da sempre. Quando vediamo nella natura una “lotta per la sopravvivenza” trasferiamo in essa il nostro principale quotidiano problema. Quando immaginiamo che sia l’utile, il vantaggio evolutivo, il tornaconto ambientale ecc. a modificare le forme viventi nella loro struttura e nei loro comportamenti, trasferiamo sulla biosfera concetti e termini prelevati dal nostro universo pratico. Ed è per questa loro origine che noi conferiamo a questi concetti una rilevanza teorica e cognitiva superiore. Prima di interrogare il pipistrello di Nagel, pregandolo di descriverci in che modo un pipistrello abbia scienza del mondo, dovremmo dunque interrogare noi stessi sui mutamenti a cui noi stessi siamo soggetti, essendo noi stessi la sintesi di molti animali. Dentro di noi albergano tanti pipistrelli che sono in grado di staccarsi e alzarsi in volo a disegnare i contorni del nostro universo cognitivo. Ma ancor più vediamo oggi alzarsi nel cuore dell’umano neri sparvieri, inquietanti segnali di malaugurio che proiettano nere ombre sul futuro da cui sembra emerge ormai una società senza più alcun centro, o centrature, dispersa in miliardi di individui come isole vaganti, sospinti a cozzare nella giostra interminabile del bellum omnium contra omnes – un sistema caotico che sarà in grado di generare, come ogni sistema caotico, anche nuovi vortici e spirali di dominio e di violenza. Non possiamo evitare di interrogarci sugli effetti che una crisi che si prepara ad investire l’umano, deformando la dimensione esistenziale ed ideologica dello zoon politikon, potrebbe avere sull’universo cognitivo.
Cosa andrà a ritrovare l’uomo scrutando le volte celesti? Cosa andrà a cercare tra i bagliori che promanano dalla sfera magica del cervello? Non è scontato che gli effetti sul sapere debbano essere negativi, dacché proprio un ampliamento degli orizzonti sociali potrebbe favorire un pari ampliamento degli orizzonti del nostro pensare. Ed anche il bellum omnium contra omnes - amplificato dal capitalismo selvaggio e che non si risolverebbe più nella generazione di un Leviatano statalista alla Hobbes o nel produrre una “volontà generale” alla Rousseau, ma in una specie di anarchia debolmente controllata pervasa da innumerevoli istinti di prevaricazione e di dominio dove ogni individuo, in una enfasi democratico-populista, si candiderà per il dominio del mondo - andrebbe necessariamente anche a “ritoccare”, al centro di produzione di una coscienza, l’idea madre da cui si diparte l’albero del sapere: la dialettica del rapporto dell’intero con le sue parti e perciò il concetto stesso di “sistema”. Piccoli ritocchi ideologici sono in grado di provocare effetti a ripetizione su tutto l’universo cognitivo e progettuale. “Pensieri che procedono con passi di colomba, reggono il mondo” - scrive Nietzsche. E certamente, in un panorama politico che tende a ricercare il suo equilibrio tra aggressività e aspettative infinite contrapposte, nuove filosofie potrebbero sommuovere i fondamenti di una visione della natura che rimane ancora, tutto sommato, di derivazione darwiniana.
Nietzsche “ritoccò” la struggle for life di Darwin sostenendo che l’essenza della vita non consiste in una lotta per la sopravvivenza, bensì in un lotta per la potenza! In ciò riecheggia il senso classico della natura come physis – un termine la cui radice contiene anche la concezione dell’essere come futurum, e perciò come crescente pressione prevaricante esercitata non solo sul tempo, ma anche sulle restanti forme dello spazio: il rapporto individuo/ambiente, non è solo un rapporto “adattivo”, ma è anche un rapporto di violenza che l’individuo esercita sull’ambiente. L’individuo non si “adatta” all’ambiente, ma piuttosto fa violenza su di esso e su tutto ciò che lo circonda. E perciò, ancor più, nel concetto della vita come lotta per la potenza, riecheggia il detto di Eraclito: polemos panton pater, la guerra è l’origine di tutte le cose! E se dunque, imitando il ritocco di Nietzsche a Darwin, noi dovessimo a nostra volta ritoccare il “darwinismo neuronale” di Edelman, quale scenario si aprirebbe? Come l’universo delle stelle – un tempo pensato come il pacifico, riposante e beato Regno dei Cieli – si è andato rivelando, agli occhi dei moderni astronomi, come un inferno di reazioni violentissime dove nessuno, nemmeno un cristiano, amerebbe viverci, così anche il cielo costellato da miliardi di lucine neuronali potrebbe essere attraversato, nel microcosmo cerebrale, da dinamiche parimenti esplosive – dinamiche che non siamo in grado di cogliere appieno, ma che potrebbero avere costituito il motore evolutivo di questo irascibile concentrato di reattività nervosa.

V - Polemos panton pater! Se il moto evolutivo della complessa struttura cerebrale fosse interpretato in analogia con i processi di espansione delle specie viventi, le complesse interazioni che hanno portato all’implementazione e articolazione funzionale della stessa potrebbero essere state alimentati da uno scenario di tipo conflittuale: guerre tra popolazioni (neuronali) che tendono a generare migrazioni e a fondare nuove colonie che si differenziano imparando a processare stimoli nuovi. In un concerto di egoismi – per cui ogni neurone cerca di trattenere e non cedere i privilegi conseguiti e perciò di non regalare ad un altro ciò che ha catturato – e di conseguenti conflitti, questa struttura non acquisirebbe nuove funzioni per qualche “utilità” funzionale o per rispondere a particolari “esigenze” imposte dall’ambiente, ma per pulsioni interne, motu proprio, per semplice inerzia espansiva alimentata da interne conflittualità e processi di differenziazione. Un bellum omnium contra omnes neuronale!
Questo processo espansivo può essere giudicato tendenzialmente infinito per cui il sistema è chiamato ad esplorare sempre nuove possibilità di espansione, non solo in ragione di sollecitazioni esteriori, ma, come detto, anche e sopratutto per una dinamica di sviluppo interna che possiamo ipotizzare alimentata da una conflittualità tra le parti. E forse è proprio a causa di questa guerra espansiva che l’uomo stesso, ridestato da un sonno millenario, è stato infine sbalzato, suo malgrado, sulle soglie del tempo, gettato a navigare nella “sua” storia. Infatti, se ogni nuova colonia neuronale “in fuga” dalla madrepatria è costretta a sopravvivere processando stimoli sempre nuovi, esaurita ogni altra possibilità, nuove colonie neuronali si sono messe a processare anche l’elemento più imponderabile della natura: il tempo! Non v’è niente di più meraviglioso di questo miracolo che ha consentito ad una coscienza limitata, ripiegata su se stessa, di espandersi volando su questo nuovo elemento e trasformando in memoria – in un atto spirituale – ogni evento della vita. Straordinaria rivoluzione!
Ma non insolita nella natura, e non meno mirabile di altre, perché la natura non conosce alcun limite alla sua capacità creativa. Su una manciata di polvere trasportata dal vento, sulla nuda roccia è spuntato un fiore, un filo d’erba! Questo è il miracolo della vita. E se non ci stupiamo più di questi “miracoli” perché mai dovremmo stupirci se la natura ha sfruttato anche la polvere del tempo per costruirvi sopra grandi archivi di memorie e per condurre uno dei suoi animali, l’uomo, a dare la scalata al futuro?