Il sapere in anima barbara

 
          di Pier Giuseppe Milanesi

 

I - C’è una frase del giovane Nietzsche su cui dovrebbero riflettere i teorici delle neuroscienze - un dubbio che dovrebbe riaffiorare nel pieno fervore delle ricerche: “E’ il cervello che pensa, oppure siamo noi a pensare il cervello?”
E’ una domanda “pesante” che potrebbe essere riformulata in altri termini: in quale misura i condizionamenti ideologici, nella loro più ampia accezione gravano sulla ricerca, la guidano sul piano metodologico e ne comprimono i risultati in un apparato concettuale che da più parti viene considerato riduzionista? Il termine “riduzionista” deve essere inteso, in senso ampio, ad indicare l’inadeguatezza di ogni modello a fronte della complessità e alla natura dell’oggetto studiato. Le ricerche sul cervello umano, nel tentativo di ricostruire una carta geografica dei nostri pensieri, sentimenti e comportamenti, assumono anche altri significati. Oltre a rappresentare un particolare stadio del cammino dell’uomo verso l’autocoscienza (proponendo una nuova prospettiva da cui scrutare se stesso), hanno contribuito a portare alla luce, come effetto di questa presa di coscienza, gli stessi limiti della nostra capacità di conoscere.
Navigando in un sistema costituito da miliardi di elementi, al pari ad un universo di stelle e costellazioni, infine il nostro intelletto fa naufragio in cotanto mare, e prende consapevolezza di un punto in cui l’aumento di esperienza non si traduce più in un progresso della conoscenza, ma produce addirittura l’effetto contrario: si distruggono le vecchie certezze senza che siano sostituite da altre nuove.
Si usa esprimere questa impotenza parlando di “carenza di modelli epistemologici”, quasi si trattasse di un problema tecnico o di natura strettamente teorica, senza ipotizzare che i problemi potrebbero nascere a monte, proprio nel seno di una cappa ideologica che l’uomo si trascina come una bisaccia sulle spalle. Questo peso ideologico grava in molti modi; penetra già attraverso le parole, a partire dal linguaggio usato, dalla terminologia, fino ad assumere proporzioni gigantesche dell’ombra proiettata dall’istituzione stessa, come “apparato ideologico di stato” – per usare un vecchio motto di Althusser – che seleziona le persone che operano dentro la sfera della conoscenza e gli argomenti su cui operare. In questo circuito il sapere diventa un fatto strumentale che serve più alla riproduzione del sistema che non a far progredire la conoscenza. Infine le due istanze si identificano per cui è difficile distinguerle. Extra ecclesia nulla salus!
Il processo per cui il sapere tende sempre più ad uniformarsi ai meccanismi di riproduzione del sistema è una costante storica. Si studia teologia per diventare prete, non per diventare cristiano. L’integrazione tra riproduzione del sapere e riproduzione dell’istituzione tende progressivamente ad accentuarsi con il consolidamento dei sistemi sociali, e contribuisce indubbiamente ad innalzare il livello di funzionalità ed efficienza dei medesimi.
Al di sopra dei condizionamenti di natura storica e sociale esiste un ultimo, insuperabile, livello di condizionamento, dovuto alla limitatezza della natura umana. Purtroppo, non tutto ci è dato conoscere! Non tutto ci è dato pensare! Esiste un confine invalicabile, specifico in ogni vivente, stabilito dalle forme dell’apparato sensibile, che stabilisce le modalità con cui ogni specie si procura l’esperienza del mondo. Attraverso la tecnica, attraverso microscopi e rilevatori di ogni tipo, l’uomo è stata in grado di amplificare il suo apparato sensibile: ora riusciamo a vedere anche ciò che la natura non ci aveva in origine concesso di vedere. Però, a fronte di una moltiplicazione esponenziale di nuove esperienze acquisite, la nostra mente è rimasta quella di sempre, quella che la natura ci ha fornito e che le ideologie hanno contribuito a plasmare.

II – Come abbiamo accennato in precedenza un aumento eccessivo di “esperienza” può generare dei fenomeni di rimbalzo, ossia portare ancor più alla luce l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi rispetto alla complessità dell’oggetto e del mondo. I teorici cercano di superare questa difficoltà affannandosi con soluzioni riduzioniste, cercando di rendere l’oggetto meno problematico, smussandolo, semplificando i termini dell’analisi, eliminando concetti ritenuti non necessari ecc. Tentativi che si rivelano in genere poco soddisfacenti e certi aspetti capziosi – come appaiono ad esempio capziosi i tentativi ostinati dei nouveaux philosophes americani di superare il dualismo cartesiano mente/cervello. In realtà il problema non sta nell’oggetto e nella sua complessità, bensì nel soggetto che lo conosce; e poiché sono limiti di natura, sembra logico presupporre che, nell‘auspicio di rivoluzionari progressi dell’umana conoscenza, tale natura debba essere migliorata.
A tal fine non abbiamo trovato di meglio che partire con una citazione, ricordando quel detto di Eraclito che meriterebbe di essere citato con la stessa frequenza di altri detti famosi, come il delfico “conosci te stesso” oppure il socratico “so di non sapere”:

Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che abbiano anime barbare (barbarous psychas echonton)

E questo è vero, perché il sapere non proviene meccanicamente dall’esperienza (anche gli animali hanno esperienza, in certi casi assai più della nostra), ma dalla rettitudine dell’occhio dell’osservatore e dalla sua capacità di non essere barbaro, e cioè, in prima istanza la sua capacità di intuire ciò che accade “dentro nell’altro”. L’intelligenza umana è sempre, in ultima istanza, una funzione dall’empatia umana. Capire cosa accade dentro l’altro! L’esercizio della conoscenza è anche esercizio di umanità.
Ed ecco la domanda! La crisi del sapere, che in ogni caso si manifesta con il montare di stereotipi cognitivi, è forse il segno di una umanità perduta o che stiamo perdendo ogni giorno, a nostra insaputa? La nostra perduta capacità di aggregare dati in un quadro teorico coerente è forse l’allegoria, l’esternazione, di un analogo processo di disgregazione sociale in atto, favorito da una parallela stereotipia e calcificazione della dimensione intersoggettiva, come risultato della compromissione del sistema empatico, che ha trasformato l’uomo moderno in un piccolo barbaro? Quali potrebbero essere le cause di questa involuzione? In che misura il deterioramento dei rapporti umani, con conseguente rattrappimento delle funzioni empatiche, è stato favorito dalla progressiva sostituzione del rapporto uomo-uomo con il rapporto uomo-macchina? L’icona dell’uomo del XXI secolo è di una figura seduta davanti al PC. Ma in generale l’individuo si relaziona continuamente con la macchina: la macchina che distribuisce ticket, che eroga banconote, che distribuisce cibi e bevande ecc.
E sono le macchine che nella educazione dell’uomo lo trasformano in un piccolo barbaro. All’interno di questa nuova forma di postura e di interazione avvengono processi aventi rilevanza evolutiva. Nella interazione con la macchina l’intera prassi umana viene “semplificata”, codificata, tradotta in linee guida, uniformata agli stereotipi della macchina. L’uomo stesso si trasforma, si muta e mutano anche le sue facoltà cognitive che si uniformano al modo di operare della macchina. Gli effetti sulla sfera teoretica sono evidenti: l’uomo formula teorie come se le formulasse il computer in persona. Il computer si cura poi di trasmettere sull’uomo la sua stessa essenza: il cervello umano diventa il nostro “hard disk”, con la sua working memory – un concetto inventato in analogia con la scheda RAM, la memoria volatile del PC - le colonie neuronali sono microcip ecc.
Ma ancora più rilevanti sono gli effetti sul piano dell’etica e del’etica sociale. Il crollo dell’empatia, oltre a rendere sterile rapporto con l’interiorità – con l’interiorità dell’altro e perciò anche con la propria, che in quella dell’altro si rispecchia - moltiplica l’aggressività, libera istinti aggressivi. Oggi vediamo la grande rete di internet sempre più ridursi ad uno zoo, dove abbondano aggressioni verbali, livori, insulti, razzismo, xenofobia, cinismo, mentre il concetto di “comunicazione” viene ridotto a gorgoglii di poche battute veicolati dai vari “social network” – tweet che appaiono come epitaffi di un cimitero vivente. Un inquietante avvertimento per chi si illude di creare una democrazia a base digitale!

III - Ritorniamo al detto di Eraclito! Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che abbiano anime barbare! Quale destino per l’umano sapere? Con un po’ di malevolo retrogusto retorico, potremmo amplificare l’effetto di questa sentenza fino domandarci se l’uomo, creatura “malvagia” – come egli stesso ha sempre dichiarato di essere – possa davvero pretendere di avere retta scienza del mondo. Con tale sospetto ontologico, aggiungeremmo un’altra pulce nell’orecchio a Kant, suggerendo al filosofo della Critica della Ragione Pura, che i limiti della nostra capacità di conoscere non sono solo limiti teoretici, ma anche etici. Se i teologi sostenevano che l’uomo cattivo non fosse in grado di conoscere di Dio, non si vede a quale titolo possa essere in grado di conoscere qualsiasi altra cosa - una affermazione che rimbalzerebbe pericolosamente sullo scenario della scienza contemporanea, rotolando come una boccia in mezzo ai birilli di scoperte e ricerche quasi tutte nate a scopi militari, pensate come armi da guerra in una gara per il dominio della terra, oppure pensate come mezzo per trarre profitti. Siamo un po’ tutti “figli della bomba” e idealmente discendiamo da Caino.
Al di là della retorica moralista, efficace in quanto utile a rendere più colorito il concetto, sosteniamo tuttavia il principio secondo cui non possiamo sperare in un radicale progresso teoretico senza un mutamento del soggetto e cioè senza un altrettanto radicale progresso nella sfera morale. Dobbiamo cambiare il pensatore se vogliamo cambiare i pensieri. La storia stessa ci insegna che le varie teorie che cercavano di capire l’organizzazione natura erano spesso teorie politiche in nuce, nel senso che i concetti “nuovi” o le spinte motivazionali al sapere trovano il loro primitivo alimento in contesti problematici in cui entrano in gioco i rapporti di interazione dell’uomo con l’uomo (e cioè la costruzione del rapporto sociale). La natura ci ha dato il dono della conoscenza non perché scrutassimo la profondità del cielo, ma perché potessimo scrutare nel cuore del nostro simile.
Per questo abbiamo rivolto la nostra attenzione alla sfera dell’empatia, come principale strumento di conoscenza che noi possediamo, che ci distingue dal resto del mondo animale, e che ci consente, non solo di entrare nel cuore dell’uomo, ma anche nel cuore della natura stessa. Questa affermazione farà senz’altro irritare i seguaci di tradizioni filosofiche che predicano l’apartheit tra scienze della natura e scienze dello spirito. Noi pensiamo invece che sia nello spirito stesso della conoscenza la tendenza a conquistare una visuale per osservare le cose da una prospettiva unitaria. Non c’è conoscenza senza intuizione, e l’intuizione è il rapporto che il sistema empatico intrattiene con l’intelligenza. Non solo, ma l’uomo ha sempre ricercato nella natura qualcosa di se stesso. Ha popolato di divinità dalle forme umane i boschi e le fonti, ha connesso insieme le luci delle stelle formando animali e profili di eroi, e ancora oggi connette insieme i vari punti-neuroni del cervello per ricostruire la mappa dei sentimenti dell’anima.
Il cervello umano affina le sue risorse se viene stimolato a pensare alla sorte dell’uomo. Per questa ragione le rivoluzioni nella scienza sono state precedute o accompagnate da rivoluzioni nella società, nel costume, nell’arte. Il sapere del mondo greco, che noi ancora ammiriamo e che riconosciamo come la sorgente primitiva del nostro modo di pensare e di fare scienza, non sarebbe forse mai nato in un sistema politico diversamente organizzato. Teorie sulla organizzazione sociale e teorie sulla organizzazione della natura si sono sempre confuse e spesso l’uomo ha cercato nella natura una conferma della legittimità della organizzazione sociale imposta dal potere costituito.

IV – Empatia come fonte di intuizione e di nuove intuizioni teoriche? Dobbiamo dunque avere cura di questo prezioso strumento dell’umana conoscenza! Non dobbiamo perciò escludere che esso debba diventare oggetto di una periodica manutenzione, e che ciò debba contemplare l’esigenza di un investimento qualitativo sull’uomo. La spinta verso il progresso della conoscenza richiede questo momento di arricchimento della natura umana (dello spirito). Trattasi di una reazione quasi meccanica, che viene prodotta dal sapere stesso, per cui vediamo che esistono momenti storici in cui l’uomo sente il bisogno di “rieducarsi eticamente” (di rigenerarsi eticamente) se vuole progredire nel sapere. Non è un fenomeno nuovo. Questa esigenza è emersa per esempio nel cristianesimo, al momento del tramonto dell’epoca classica. Nelle Lettere di Paolo, il principio è chiaro: “O Dio, tu che umiliasti la sapienza del mondo!” Alla sophia tou cosmou, Paolo di Tarso contrappone e mette in primo piano il problema dello spirito, l’urgenza della rigenerazione dell’uomo.
Il cristianesimo nasce dall’incontro di molte culture e tradizioni, ma una delle ragioni che ne ha accelerato la diffusione, soprattutto presso gli intellettuali (come ad esempio Agostino) era la sensazione che il sapere del mondo (che allora era più o meno concentrato nella biblioteca di Alessandria), avesse ormai raggiunto il suo limite. A quel punto, se qualcosa doveva cambiare, questo “qualcosa” era il soggetto conoscente: una istanza epistemologica doveva tradursi in una rivoluzione etica.
Non dobbiamo intendere questa antica consapevolezza del limite come frutto della nostra immaginazione storica. Il limite era stato raggiunto davvero, e la crisi del sapere nel mondo classico si trascinava da tempo. I paradossi eleatici, che Platone aveva cercato di confutare per poter salvare la “logica” rappresentano l’esempio a cui principalmente ci riferiamo. I sofisti infine ridussero ogni umano argomentare ad un semplice gioco, senza pretesa di verità – ti esti aletheia, che cosa è la verità, dirà il sofista Pilato – e nello stesso tempo però contribuirono a spostare l’attenzione sulla sfera dell’etica entro la quale era possibile reperire un principio di stabilità e di solidità.
Socrate – per bocca di Platone – compie questa difficile operazione di fondere insieme sfera teoretica e sfera etica. L’uomo malvagio è tale perché fondamentalmente ignorante. Questa identificazione subisce ulteriori consolidamenti, fino a trovare la formulazione estrema (e indubbiamente estremista, paradossale) nel cristianesimo, dove la “verità” si identifica completamente con lo status etico della persona – la santità. Per questo Gesù può esprimersi in questi termini dicendo “Io sono la verità”. L’uomo santo e buono non ha più bisogno di studiare conoscere la verità, perché la verità ormai abita dentro di lui, come interiore sentire. Ed infatti è proprio in quel luogo che Agostino, il primo filosofo sistematico cristiano, la andrà a cercare – dentro se stesso.
Il tentativo socratico (amplificato da Platone) fu anche un tentativo di uscire dalla situazione di stallo in cui si era insabbiata la dialettica. In un secondo e più tardo momento ebbe il sopravvento la convinzione che tutto il sapere “umano” (la sophia tou cosmou) fosse essenzialmente falso e inservibile, al punto che furono accantonate anche molte conoscenze che fino ad allora erano state faticosamente acquisite.

V - Ci siamo soffermati su questo antico scenario perché riteniamo che esso descriva una situazione assai simile allo stato attuale delle cose, caratterizzato da un sapere che trabocca di “esperienza” e di evidenze accumulate – una gigantesca “biblioteca di Alessandria” – che viene però gestito da una umanità che ha esaurito le sue risorse di immaginazione del mondo ed organizza il suo sapere nel contrapporre alla ricchezza traboccante dei dati accumulati la scarna e povera geometria degli stereotipi dell’informatica come modalità con cui l’umano recepisce ed organizza quella ricchezza.
Se la storia, già in uno stadio precedente, aveva suggerito, come strada da percorrere, per superare lo stallo del sapere, di investire sull’uomo, è però necessario capire in che cosa tale investimento consista. In prima istanza sembra implicito che in tale motto sia contenuto un richiamo alla politica Anche il lavoro critico di Platone trovò infine compimento nella scrittura della Repubblica. Intendiamo la sfera della politica nel senso più nobile del termine. L’uomo non può pretendere di capire l’organizzazione della natura, se non è nemmeno in grado di organizzare se stesso. A tal fine sarebbe anche utile rammentare che le teorie su cui si regge quella forma di organizzazione che oggi è lo “stato” sono alquanto vecchie ed obsolete, per cui non è da escludere che sia possibile inventare qualcosa di migliore e di più funzionale atto a promuovere una idea positiva dello stato, come stato conviviale, dello stare-assieme dividendo equamente gioie e dolori, ricchezze e povertà.
Ma al di là dell’impegno politico, nel cui orizzonte sempre siamo chiamati ad operare, “Investire sull’uomo” significa soprattutto investire sulle risorse della mente, al fine di esercitare quelle funzionalità che ci consentono un potenziamento della capacità di rappresentarci nuovi mondi possibili. Si parlava della coscienza del limite che il mondo classico aveva conseguito e che aveva provocato quella deriva scettica che aveva portato prima alla sofistica – il sapere vanificato nel gioco - e poi al cristianesimo. Eppure ci fu un’altra risposta, diversa. Quella di Socrate!
Socrate ci narra lo stesso tipo di esperienza: sembrava a lui che non ci fosse più possibilità di sviluppare la conoscenza, gli sembrava di sapere ormai tutto, al punto che il suo saper tutto equivaleva al saper nulla, quando udì una voce che gli sussurrò: “O Socrate, esercitati nella musica!”
Perché il cavaliere della conoscenza dovrebbe trascurare un poco la sua vita di laboratorio e i suoi calcoli computazionali per ritornare ad esercitarsi nella musica? Il dio che parlò a Socrate era anche un po’ neurologo, poiché in effetti la musica è veramente un’arte che produce effetti benefici e migliorativi sul nostro cervello, scuotendo quelle strutture ritmiche ed armoniche che sono poi alla base delle più ardue imprese cognitive. Il cervello umano si è evoluto imparando a processare il tempo; e la musica è l’arte del tempo, l’arte di andare a tempo! E quindi è anche lo strumento che ci aiuta a marciare al ritmo della storia.
Non si tratterebbe dunque di continuare a scuotere il vecchio albero della conoscenza per far piovere idee sempre più povere, quanto piuttosto di innaffiare l’albero perché possa produrre nuovi rami e nuove fronde. Da sempre, da Omero a Musil (che scrisse un prezioso libriccino dal titolo La conoscenza del poeta) si è coltivata l’idea che la poesia, figlia primogenita della musica, fosse depositaria di una forma di conoscenza superiore. Oggi sappiamo che il poeta, nell’esercitare la sua attività ideativa, usa una parte altrettanto preziosa del cervello – la cintura dove nascono le metafore, i sogni, le parole; dove il mondo prende colore; dove le parole diventano suoni dell’anima e si impregnano di significati; dove l’immaginazione è in grado di sovvertire gli stereotipi del comune sentire e rappresentare gli oggetti. Nel grigiore dell’accademia, con i suoi rituali cognitivi, burocratici e istituzionali, la poesia è ormai morta da tempo e con essa l’invenzione. Se muore il poeta o il musico, muore anche l’inventore! Rimangono solo i reiterati esercizi di sperimentazione di “nuovi modelli cognitivi”, intesa come reimpiego di strategie teoriche e metodologie importate da altre discipline, come tecnica di elaborazione di algoritmi sempre più sofisticati, sequenze di equazioni, listati di software con cui si vorrebbe rappresentare l’azione intelligente della natura – quella che un tempo veniva chiamata “l’intelligenza di Dio”.
Come dobbiamo intendere, oggi, dunque l’antico invito socratico a “ritornare alla musica” se non come un esercizio di innalzamento della nostra sensibilità ed un potenziamento della nostra capacità empatica di sapere ascoltare “… parole che non dici umane” - ricordando un noto verso d’annunziano – e cioè di comprendere più profondamente il linguaggio delle cose?
E se le “orecchie del sapere” protese ad ascoltare il mondo, sono costituite dai padiglioni istituzionali in cui il sapere viene rilevato, selezionato, gestito, prodotto, confezionato, ecc. come non pensare che una rivoluzione che tenda a superare i vecchi “modelli cognitivi” non debba cominciare da una rivoluzione che coinvolga queste strutture?